Stamattina m’è tornata in mente questa canzone di Alanis Morissette e m’è venuta un’idea: perché non creare una rubrica che, a partire dai testi delle canzoni, analizzi situazioni della nostra società e come i nostri comportamenti a riguardo possano condurci al benessere o, al contrario, alla sofferenza? Dedico questa prima puntata a chi è genitore e a chi è stato figlio, ma pur cresciuto non s’è ancora riuscito a staccare quest’etichetta.
"Certe volte non è mai abbastanza. Solo se sarai impeccabile, allora conquisterai il mio amore. Non dimenticare di vincere il primo premio! Non dimenticare di tenere quel sorriso stampato sulla faccia! Fa' il bravo ragazzo, impegnati di più. Devi cercare di essere all'altezza e rendermi più fiero."
Quante volte ci illudiamo di poter aiutare nostro figlio spronandolo verso il successo senza renderci conto che in realtà il messaggio che stiamo mandando è quello secondo il quale possiamo amarlo SOLO SE (sarà impeccabile, vincente, sorridente, ecc.). In questo modo faremo solo sì che da adulto vivrà con la spinta costante a fare il bravo, a sforzarsi, a essere perfetto, insomma a vivere in funzione di quello che gli altri penseranno di lui (noi in primis)
“Quanto ti ci vuole per essere più sicura di te? Quante altre volte dovrò dirti di sbrigarti? Con tutto quello che faccio per te, il minimo che tu possa fare è star zitta! Sii una brava ragazza, devi impegnarti ancora di più. Non bastava solo questo a renderci orgogliosi.”
Non ci rendiamo conto che quello che diciamo di pretendere per il bene di nostro figlio è in realtà solo per far sentire ok noi e da questo deriva la pressione a ottenere i risultati il prima possibile (“quanto ti ci vuole?” “quante altre volte…?”). Quando non otteniamo i risultati che desideriamo nei tempi che vorremmo parte il ricatto “sei un ingrato se non ti impegni al massimo nel rendermi orgoglioso, considerata tutta la fatica che sto facendo per darti la felicità!” Ma esattamente in cosa consiste quel “tutto quello che faccio per te”?
“Io vivrò attraverso di te, ti renderò quello che io non sono mai stato. Se sarai il migliore, allora forse lo sarò anch'io rispetto a lui o a lei? Sto facendo tutto questo per il tuo dannato bene, sarai tu a rifarti dalle mie occasioni sprecate! ...che c'è? Perché stai piangendo?”
Lo sforzo che stiamo compiendo è tutto rivolto ad appagare i nostri sogni frustrati, a far sì che nostro figlio sia una versione migliore di noi, senza che ci accorgiamo che molto probabilmente questo non corrisponde alla versione migliore di lui. Ci specchiamo in nostro figlio, pretendiamo da lui quello che (forse) non siamo riusciti a fare noi. C’è un desiderio di rivalsa da parte nostra in tutto questo, c’è la rabbia che esce nell’espressione “il tuo DANNATO bene”. La grande verità è tutta in quest’ossimoro: com’è possibile che una cosa che secondo noi dovrebbe far star bene nostro figlio rappresenti alla fin fine per lui una maledizione? Perché invece di star bene sta addirittura piangendo?
“Fa' il bravo ragazzo, spingiti un po' più in là adesso, perché non sei stato abbastanza veloce per renderci felici. Ti ameremo proprio per come sei... se sarai perfetto…”
Finché la risposta che diamo a queste domande sarà che il problema è nell’altro che non è stato ancora ABBASTANZA (forte, veloce, …perfetto!) la maledizione non potrà essere spezzata. Finché nostro figlio sentirà che lo ameremo per quello che è SOLO SE sarà perfetto, come noi lo vogliamo, lui non potrà mai sentirsi non solo ok ma nemmeno pienamente amato. E finché i figli non faranno quel passo verso l’autonomia scrollandosi di dosso questa necessità di doversi adeguare alle aspettative degli altri, avranno non solo difficoltà nel trovare il benessere, ma non potranno diventare Adulti integrati.
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